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La struttura cosmica più grande dell’Universo

Un gruppo internazionale di astronomi, guidati dai colleghi dall’Università di Lancashire (UCLan), hanno rivelato la struttura cosmica più grande mai osservata. Detta tecnicamente Large Quasar Group (LQG) si tratta di una struttura così grande che si impiegherebbe circa 4 miliardi di anni a percorrerla viaggiando con una navicella spaziale alla velocità della luce.

E’ noto che i quasar sono i nuclei di galassie appartenenti alle epoche primordiali della storia cosmica. Di tanto in tanto, essi esibiscono una intensa luminosità per brevi periodi di tempo, con intervalli di circa 10-100 milioni di anni, che li rende visibili a grandi distanze. Dal 1982, si sa che i quasar tendono a raggrupparsi formando delle strutture di dimensioni sorprendentemente enormi in termini astronomici che sono state denominate LQG. I ricercatori, guidati da Roger Clowes del UCLan’s Jeremiah Horrocks Institute, hanno identificato una struttura di questo tipo talmente enorme che sta creando una certa preoccupazione in termini del principio cosmologico: l’assunzione cioè che l’Universo, quando viene osservato su larga scala, appare mediamente uguale in tutte le direzioni. Ora, il modello cosmologico standard si basa sulla relatività generale di Einstein che dipende dal principio cosmologico, un principio che è stato assunto teoricamente ma che non è mai stato dimostrato osservativamente “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Per dare una idea della scala di distanza, la Via Lattea dista dalla vicina Andromeda circa 0,75 Mpc (Megaparsec), che sono equivalenti a circa 2,5 milioni di anni-luce. Un intero ammasso di galassie può estendersi per circa 2-3 Mpc ma le strutture LQG possono arrivare fino a 200 Mpc o più. Secondo il principio cosmologico e l’attuale modello standard della cosmologia moderna, i calcoli suggeriscono che non esisterebbero strutture più grandi di 370 Mpc. Ma la struttura in esame scoperta di recente ha una dimensione di circa 500 Mpc e dato che è allungata essa si estende per almeno 1200 Mpc, cioè 4 miliardi di anni-luce, pari a 1600 volte maggiore della distanza che separa la Via Lattea da Andromeda. “Si tratta della struttura più grande mai osservata” dichiara Clowes. “E’ qualcosa di sorprendente e affascinante allo stesso tempo anche perché va contro le nostre concezioni sulla scala delle distanze cosmologiche”. Dunque, il passo successivo sarà quello di vedere se esistono altre strutture di queste dimensioni in modo da ottenere ulteriori indizi sulla loro formazione ed evoluzione.

RAS preprint: Astronomers discover the largest structure in the universe

arXiv: A structure in the early universe at z ~ 1.3 that exceeds the homogeneity scale of the R-W concordance cosmology
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‘Geyser’ galattici

Grazie ad una serie di osservazioni condotte con il radiotelescopio di 64m presso Parkes in Australia, gli astronomi hanno rivelato ‘mostruosi’ flussi di particelle cariche che vengono emesse dalle regioni centrali della Via Lattea, distribuendosi nello spazio fino a coprire oltre la metà del cielo sopra l’orizzonte. Queste gigantesche strutture corrispondono alle cosiddette “Fermi bubbles” già rivelate dal telescopio spaziale Fermi nel 2010.

Si tratta di enormi flussi di energia, circa un milione di volte superiore a quella emessa da una supernova, che non costituiscono comunque un serio pericolo per il nostro Sistema Solare. La velocità con la quale si propagano è supersonica, pari a circa 1000 Km/sec, e la direzione di propagazione è perpendicolare al piano galattico. Se osserviamo queste strutture nella loro interezza, esse si estendono per circa 50.000 anni-luce verso le regioni più esterne della Galassia, una lunghezza equivalente a circa la metà del diametro della Via Lattea. Questi flussi di energia si manifestano nella banda delle microonde sottoforma di emissione diffusa che era stata già rivelata sia dai satelliti WMAP e Planck ma soprattutto dal telescopio spaziale Fermi nel 2010. Questi tre satelliti non permettono, però, di determinare con certezza la sorgente di energia mentre le recenti osservazioni nella banda radio hanno fornito quegli indizi che stavano cercando da tempo i ricercatori. Tra le varie opzioni che sono state considerate dagli astronomi ne riportiamo due: una riguarda l’ipotesi di una violenta emissione di alta energia di tipo quasar proveniente dal buco nero centrale della Via Lattea; l’altra si basa sull’ipotesi di venti stellari ad altissima temperatura associati a stelle che stanno esplodendo. Le osservazioni suggeriscono che si tratta della seconda ipotesi. Di fatto, i flussi di particelle pare siano dovuti a varie generazioni di stelle presenti nelle regioni più interne della Galassia che si stanno formando e stanno esplodendo, un processo che dura da almeno cento milioni di anni. Per ottenere questi indizi, i ricercatori hanno analizzato i campi magnetici, misurando un parametro caratteristico delle onde radio e cioè la polarizzazione. Questi risultati permettono inoltre di rispondere ad una delle grandi domandi che riguarda la Via Lattea: come fa la nostra galassia a generare e a mantenere il suo campo magnetico?

CSIRO press release: Our Galaxy's "geysers" are towers of power

Nature Letter: Giant magnetized outflows from the centre of the Milky Way

L’Universo all’epoca in cui si formarono le ‘prime’ stelle

Man mano che gli astronomi si spingono sempre più indietro nel tempo, diventa possibile risalire all’epoca in cui l’Universo presentava già tracce di elementi pesanti, quali carbonio e ossigeno. Questi elementi, che si formarono dall’esplosione di stelle di grande massa, hanno successivamente formato quei mattoni fondamentali da cui sono emersi i pianeti e la stessa vita sul nostro pianeta.

Oggi, alcuni ricercatori del MIT, del Caltech e dell’Università della California a San Diego, sono stati in grado di esplorare le epoche più remote della storia cosmica fino ad arrivare all’era in cui apparvero le prime stelle e le prime galassie. Per realizzare queste misure, gli scienziati hanno analizzato la luce del quasar più distante, un nucleo galattico attivo situato a più di 13 miliardi di anni-luce dalla Terra. Le osservazioni di questo quasar mostrano una sorta di ‘istantanea’ dell’Universo durante la sua infanzia, quando cioè si trovava ad avere una età di circa 750 milioni di anni. L’analisi dello spettro della radiazione emessa dal quasar non ha fornito alcuna evidenza di elementi pesanti presenti nella nube di gas che lo circonda, un risultato che indica il fatto che il quasar appartiene ad una epoca vicina a quella in cui si stavano formando le prime stelle. In altre parole, questi dati suggeriscono che le prime stelle si sono formate in fasi successive e non tutte insieme. Ad ogni modo, le osservazioni ottenute sul quasar distante ci forniscono nuovi indizi per comprendere ancora più in dettaglio le fasi primordiali dell’evoluzione delle prime stelle. Già da qualche tempo, gli astronomi stanno cercando di individuare il periodo cosmico durante il quale sono emerse le prime stelle andando ad analizzare la luce degli oggetti più distanti. Ma fino ad oggi, i ricercatori sono stati in grado di osservare solo oggetti che si trovano a meno di 11 miliardi di anni-luce. Questi oggetti mostrano tutti tracce di elementi pesanti e ciò indica che le stelle erano già apparse o comunque si erano già formate in quella fase della storia cosmica. Il passo successivo sarà ora quello di analizzare gli spettri di altri quasar distanti in modo da confermare l’assenza di elementi pesanti, come l’ossigeno, il silicio, il ferro o il magnesio, e definire meglio l’età in cui si originarono le prime stelle dell’Universo.

[Press release: When the first stars blinked on]

arXiv: Extremely metal-poor gas at a redshift of 7

I quasar per lo studio dell’energia scura

Il progetto BOSS, che sta per Baryon Oscillation Spectroscopic Survey, copre un enorme volume di spazio ed è stato concepito per misurare gli effetti dell’energia scura sull’evoluzione dell’Universo. Si tratta del più grande programma scientifico della terza survey denominata Sloan Digital Sky Survey (SDSS-III) che ha appena annunciato il primo risultato importante relativo ad una nuova tecnica di mappatura che si basa sull’analisi degli spettri di più di 48.000 quasar i più distanti dei quali si trovano a circa 11,5 miliardi di anni-luce.

Nessuna tecnica per lo studio dell’energia scura ha permesso di esplorare questa epoca così antica risalente alle fasi primordiali della storia cosmica durante le quali la materia era ancora abbastanza densa  da rallentare l’espansione dell’Universo, mentre invece l’influenza dell’energia scura non si era ancora fatta sentire“, spiega David Schlegel investigatore principale del programma BOSS. “Oggi, l’espansione dello spazio sta accelerando perché l’Universo è dominato dall’energia scura. Il modo con cui l’Universo è passato dalla fase di decelerazione a quella di accelerazione rimane ancora uno dei misteri della moderna cosmologia” (vedasi Enigmi Astrofisci). BOSS permette di studiare gli effetti dovuti all’energia scura andando ad analizzare le oscillazioni acustiche dovute alla materia barionica (Barionic Acoustic Oscillations, BAO), la grande rete cosmica che mostra le variazioni della distribuzione delle galassie visibili e delle nubi di gas intergalattico, difficili da osservare, che sono altrettanto importanti per la studio della materia scura. Le spaziature regolari dei picchi della densità di materia hanno origine dalle variazioni di densità primordiali, i cui resti sono visibili oggi nella radiazione cosmica di fondo. Queste spaziature offrono una sorta di ‘righello cosmico’ per calibrare il tasso di espansione dell’Universo laddove le oscillazioni acustiche di origine barionica possono essere misurate. Utilizzando il telescopio della Sloan Foundation presso l’osservatorio astronomico di Apache Point nel New Mexico, BOSS ha iniziato una duplice campagna di osservazioni spettroscopiche per studiare le oscillazioni acustiche barioniche. La prima priorità è stata quella di esaminare le galassie normali luminose che hanno redshift fino a 0,8, equivalente ad una distanza di circa sette miliardi di anni-luce, i cui primi risultati del campione che comprendeva oltre 300.000 galassie sono stati annunciati nel marzo 2012. Ma per studiare il contributo delle oscillazioni acustiche barioniche dovuto alle galassie che hanno redshift abbastanza elevati non è sufficiente un telescopio di 2,5 metri. Dunque, il secondo obiettivo di BOSS sono stati i quasar. “I quasar sono gli oggetti più luminosi del cielo, e quindi rappresentano l’unico modo credibile per misurare spettri fino a redshift 2.0 e oltre“, dice Schlegel. “A questi redshift così elevati ci sono almeno cento volte più galassie rispetto ai quasar, ma sono troppo deboli per studiare le oscillazioni acustiche barioniche“.

Tuttavia, i quasar sono troppo scarsi per misurare direttamente le oscillazioni acustiche, ma c’è un altro modo per rivelarli a redshift elevati. Dato che la radiazione emessa da un quasar passa attraverso le nubi di gas intergalattico nel suo percorso prima di raggiungere i nostri strumenti, il suo spettro presenterà un gran numero di righe di assorbimento dell’idrogeno, note come Lyman-alfa forest. Idealmente, ogni riga di assorbimento nello spettro di un singolo quasar ci dà delle indicazioni sulla variazione della densità del gas che interviene lungo la linea di vista. Considerando un certo numero abbastanza elevato di quasar, che coprono allo stesso tempo una ampia zona di cielo, è possibile mappare in 3D la distribuzione delle nubi di gas. Questa idea è stata avanzata agli inizi degli anni 2000 da Patrick McDonald, all’epoca presso l’Istituto Canadese di Astrofisica Teorica, e da Martin White, entrambi ora alla Physics Division dei Laboratori Berkeley. “Quando ho presentato l’idea a una conferenza di cosmologia, nel 2003, hanno pensato che fossi pazzo“, dice White, che è anche un professore di fisica e astronomia presso la University of California a Berkeley e presidente dei progetti di survey che utilizzano BOSS. “Nove anni più tardi, BOSS ha dimostrato che si tratta di una tecnica incredibilmente potente. Infatti è andato al di là dei nostri sogni più folli“. Il primo risultato della Lyman-alpha forest, cioè la prima mappa delle oscillazioni acustiche barioniche in questa fase primordiale dell’evoluzione dell’Universo, si basa solo su un terzo del volume di spazio che sarà esplorato da BOSS e comprende 60.369 quasar già confermati dall’analisi degli spettri. Per semplificare la ricerca delle oscillazioni acustiche, molti di questi oggetti sono stati scartati a causa di una serie di contaminazioni che alterano il segnale che si vuole cercare perciò alla fine sono stati considerati solo 48.129 quasar. Già nel 2011, un team guidato da Anže Slosar del Brookhaven National Laboratory aveva dimostrato la fattibilità dell’esperimento per misurare la variazione di densità del gas idrogeno intergalattico su distanze cosmologiche utilizzando solo un campione di 14.000, un dato sufficiente per stabilire una prova concreta al livello teorico. Una volta eseguita l’elaborazione dei dati e avere generato falsi spettri, le analisi della Lyman-alfa forest di oltre 48.000 quasar hanno dato risultati simili. Dunque, applicando questi dati numerici agli spettri veri dei quasar è stato possibile ottenere un quadro della distribuzione di densità del gas che ci permette di avere un prima idea sull’andamento delle oscillazioni acustiche in questa regione dello spazio precedentemente inesplorata. “Stiamo osservando indietro nel tempo quando l’espansione dell’Universo era dominata dalla decelerazione dovuta alla materia scura e l’energia scura era difficile da rivelare. Il passaggio dalla decelerazione all’espansione è stato molto netto e ora viviamo in una epoca dominata dall’energia scura. Una delle grandi domande aperte in cosmologia è: perché adesso? ” E’ una domanda a cui BOSS cercherà di rispondere man mano che raccoglierà la luce di più di un milione e mezzo di galassie e più di 160.000 quasar prima che la survey SDSS-III sarà completata. Nel frattempo, possiamo affermare che la tecnica di analisi della foresta Lyman-alfa ha aperto una nuova visione dell’Universo primordiale che in futuro potrà essere completata con indagini più potenti come quella già proposta e denominata BigBOSS.

[Press release: BOSS Quasars Unveil a New Era in the Expansion History of the Universe]

arXiv: Baryon Acoustic Oscillations in the Ly-α forest of BOSS quasars

SDSS J0123+00, si ‘accende’ un quasar

La figura rappresenta una immagine della regione attorno al quasar SDSS J0123+01 ottenuta con il telescopio GTC. Il colore rosso mostra le regioni dove la luce viene emessa principalmente dalle stelle. Il colore verde mostra invece l’emissione del gas caldo ionizzato. Il colore giallo rappresenta il contributo di entrambi. L’immagine rivela inoltre l’esistenza di una nebulosa gigante di gas ionizzato che si estende per circa 180 Kpc (quasi 600 mila anni-luce). La nebulosa possiede una sorta di ponte di materiale che connette il quasar fisicamente con la galassia vicina con la quale sta interagendo.
Credit: Montserrat Villar Martin (IAA-CSIC)

Utilizzando due dei più grandi telescopi del mondo, il Very Large Telescope (VLT) e il Gran Telescopio Canarias (GTC), un gruppo internazionale di astronomi hanno trovato una chiara evidenza dell’interazione tra galassie che ha determinato la “accensione”, per così dire, dell’attività di un quasar estremamente luminoso denominato SDSS J0123+00.

Molte galassie, note come nuclei galattici attivi, emettono una enorme quantità di energia che proviene principalmente dalle regioni centrali dove si ritiene che risieda un buco nero supermassiccio che può raggiungere una massa fino ad alcuni milioni di volte la massa solare. Nel caso di SDSS J0123+00, uno dei risultati più importanti che sono stati ottenuti riguarda la scoperta di una nebulosa debole, estesa, formata da gas ionizzato che circonda l’intera galassia. La nebulosa è circa sei volte più grande della Via Lattea e, secondo gli autori, è costituita dai resti dovuti alla interazione tra SDSS J0123+00 e una galassia vicina. Parte della nebulosa gigante è costituita da una sorta di “ponte di materia” che connette le due galassie. Ciò rafforza l’ipotesi in base alla quale l’attività del quasar è alimentata dall’interazione delle due galassie che produce la formazione di gas nelle regioni centrali fornendo materiale al buco nero. Questo processo può infine determinare un processo di rapida formazione stellare.

arXiv: VLT and GTC observations of SDSS J0123+00: a type 2 quasar triggered in a galaxy encounter?

Nuclei of Seyfert galaxies and QSOs – Central engine and conditions of star formation

Nuclei of Seyfert galaxies and QSOs – Supermassive black holes (SMBHs) are ubiquitous in the Universe. It is widely accepted that most or all massive galaxies harbor a central SMBH. Continua a leggere Nuclei of Seyfert galaxies and QSOs – Central engine and conditions of star formation

SDSS III, la più grande mappa del cielo in 3D

Il programma scientifico Sloan Digital Sky Survey III (SDSS-III) ha prodotto la più grande mappa tridimensionale di galassie massicce e buchi neri distanti mai realizzata. La mappa fornisce la posizione e la distanza di oltre un milione di galassie e copre un volume totale equivalente a quello di un cubo di lato pari a 4 miliardi di anni-luce.

“Volevamo prendere quanto più volume di cielo possibile in modo da capire come sta accelerando l’espandendo dell’Universo”  spiega Daniel Eisenstein dell’Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics e direttore del programma. La mappa si basa principalmente sulla DR9 (Data Release 9) che contiene i dati dei primi due anni di una survey  programmata nel corso di sei anni. La DR9 include le immagini di 200 milioni di galassie e contiene 1,35 milioni di spettri galattici che forniscono una informazione molto importante in termini della terza dimensione permettendo agli astronomi di misurare le distanze a cui si trovano gli oggetti. “Un altro scopo del progetto è creare un catalogo che sia utilizzato per lungo tempo dagli astronomi” dichiara Michael Blanton della New York University e a capo progetto della Data Release 9. Il catalogo contiene inoltre i nuovi dati della SDSS-III Baryon Oscillation Spectroscopic Survey (BOSS) che misurerà la posizione di galassie massicce fino a distanze dell’ordine di 6 miliardi di anni-luce e quella di quasar e di buchi neri giganti fino a 12 miliardi di anni-luce. Grazie a queste enormi mappe astronomiche, gli scienziati sono in grado di ricostruire la storia dell’Universo nel corso degli ultimi 6 miliardi di anni e quindi di ottenere maggiori indizi sulla materia scura e sull’energia scura, i due più grandi enigmi della moderna cosmologia a cui si spera, grazie anche a questi dati, di dare delle risposte (vedasi Enigmi Astrofisici).

More info : SDSS-III Blog

ArXiv: The Ninth Data Release of the Sloan Digital Sky Survey: First Spectroscopic Data from the SDSS-III Baryon Oscillation Spectroscopic Survey

Galassie ‘scure’ ai confini dell’Universo

Questa immagine profonda mostra una regione di cielo centrata sul quasar HE0109-3518.
Il quasar è individuato da un cerchio rosso al centro dell’immagine.
L’intensa radiazione del quasar ‘illumina’, per così dire, 12 galassie ‘scure’, individuate dai cerchi blu, che appaiono molto deboli nell’immagine. Dato che non sono presenti stelle, queste galassie non emettono luce e perciò non possono essere rivelate direttamente dai telescopi. Sarebbe così impossibile rivelarle a meno che non sono illuminate da una sorgente di radiazione esterna come quella associata ad un quasar di fondo.
Credit: ESO, Digitized Sky Survey 2 and S. Cantalupo (UCSC)

Le cosiddette ‘galassie scure’, cioè galassie appartenenti ad un’epoca primordiale della storia evolutiva dell’Universo e la cui esistenza è stata prevista ma mai verificata, potrebbero essere state rivelate oggi per la prima volta. Si tratta di oggetti ricchi di gas dove non sono presenti le stelle. La loro scoperta è stata  fatta grazie ad una serie di osservazioni condotte con il Very Large Telescope (VLT) dell’ESO quando esse vengono illuminate, per così dire, dalla radiazione emessa da un quasar. Queste galassie sono piccole, non sono molto efficienti per formare stelle e si ritiene che esse abbiano avuto un ruolo importante come ‘mattoni fondamentali’ per la formazione delle galassie che vediamo oggi molto più brillanti e ricche di stelle. Questi risultati ci permettono di avere ulteriori informazioni sui quei processi che hanno portato alla formazione delle prime galassie.

ESO Pub: Detection of dark galaxies and circum-galactic filaments fluorescently illuminated by a quasar at z=2.4

Una popolazione di galassie attive apparentemente ‘scomparse’

Si ritiene che una nuova popolazione di galassie attive (curva arancione) contribuisca alla radiazione cosmica di fondo nella banda dei raggi-X (curva blu). Entrambe mostrano delle forme spettrali simili e i relativi picchi si trovano a valori simili di energia. Se si sommano i contributi di altre popolazioni di galassie attive (curve in giallo e viola) si trova il fondo aspettato.
Credit: NASA/Goddard Space Flight Center

Grazie ad una serie di osservazioni condotte con il satellite Swift, un gruppo internazionale di ricercatori hanno confermato l’esistenza di una popolazione di galassie attive che ospitano buchi neri supermassicci. Nonostante l’emissione di alta energia sia alquanto debole, gli astronomi affermano che queste sorgenti di raggi-X potrebbero essere la “punta dell’iceberg”, in altre parole, il loro numero ammonterebbe a solo un quinto di tutte le galassie attive.

Queste sorgenti di raggi-X sono dappertutto” spiega Neil Gehrels, investigatore principale di Swift, “solo che, prima di Swift, erano troppo deboli e oscurate per essere identificate“. La maggior parte delle galassie ospitano un buco nero gigante nei loro nuclei e quelle rivelate da Swift possiedono masse pari ad almeno 100 milioni di masse solari. In una galassia attiva, la materia che si accresce attorno al buco nero va ad alimentare l’emissione di alta energia e in funzione di come essa emerge ed è orientata nello spazio, rispetto alla nostra linea di vista, ci permette di distinguere due classi principali di galassie attive che sono tra gli oggetti più luminosi dell’Universo: i quasar e i blazar. Da qualche tempo, gli astronomi hanno creduto che la radiazione cosmica di fondo nella banda dei raggi-X fosse sottostimata finchè Swift ha permesso di rivelare questa popolazione vicina di oggetti alquanto brillanti e apparentemente “invisibili” agli strumenti. Dunque, pare che questa popolazione di galassie attive, cioè quella in cui i buchi neri sono oscurati dal disco di gas e polveri e che si sono formati quando l’Universo aveva una età di circa 7 miliardi di anni, contribuisca maggiormente alla radiazione di fondo nella banda dei raggi-X il cui andamento, sommato a quello dovuto ad altre popolazioni di galassie attive, descrive quasi perfettamente lo spettro risultante del fondo dei raggi-X, come ci si dovrebbe aspettare.

L”appetito’ insaziabile dei quasar

Illustrazione artistica del concetto del disco di accrescimento attorno al buco nero nella galassia Mrk 231. Il flusso di radiazione è rappresentato in alto sopra il disco (in blu) ma non è ciò che si vede da Terra. Si nota inoltre un getto, molto stretto e localizzato che era noto prima delle osservazioni di Gemini.
Credit:Gemini Observatory/AURA, Lynette Cook

Quando due galassie fondono (merging), il buco nero supermassiccio centrale che si forma nella nuova galassia sviluppa una sorta di “appetito” insaziabile e insostenibile. Per la prima volta, alcune osservazioni realizzate con l’osservatorio Gemini hanno permesso agli astronomi di rivelare, chiaramente, un flusso di radiazione di alta energia su larga scala la cui attività sembra sia arrivata alle fasi finali. Il flusso di radiazione sta effettivamente privando la galassia del gas e delle polveri associate al disco di accrescimento che alimenta l’attività del buco nero, non solo, ma questa perdita di materia frena anche l’attività di formazione stellare.

Secondo Sylvain Veilleux dell’Università del MarylandMarkarian 231, la galassia implicata, è una sorta di “laboratorio ideale” per studiare l’attività dei buchi neri nei nuclei galattici attivi. “Questo oggetto è incredibilmente vicino e rappresenta il miglior esempio che conosciamo di una galassia gigante che sta vivendo gli stadi finali di un processo violento di merging dove si sta rivelando il quasar centrale“, spiega Veilleux. “E’ molto probabile che questi processi estremi stiano avvenendo anche in altre galassie attive“. Nonostante Mrk 231 sia stata studiata a lungo e sia nota per la presenza di getti relativistici, le osservazioni di Gemini hanno evidenziato la presenza di un flusso di radiazione che si estende in tutte le direzioni fino ad una distanza di circa 8.000 anni-luce attorno al nucleo della galassia e con una velocità di circa 1.000 Km/sec. A queste velocità, il gas potrebbe andare da New York a Los Angeles in circa 4 secondi! Questo flusso di radiazione sta togliendo gas al nucleo della galassia ad un ritmo vertiginoso, più di 2,5 volte quello previsto affinchè si formino nuove stelle. Mrk 231 si trova a circa 600 milioni di anni-luce nella direzione della costellazione dell’Orsa Maggiore. Sebbene la sua massa sia incerta, alcune stime indicano che essa sia almeno tre volte quella della Via Lattea mentre la massa del suo buco nero viene stimata essere dell’ordine di 10 milioni di masse solare, cioè tre volte quella del buco nero della nostra galassia. Nei nuclei galattici attivi (Active Galactic Nuclei o AGN) il flusso di materia che cade verso il buco nero centrale alimenta, di solito, l’attività dei quasar. L’oggetto in questione, Mrk 231, si trova oggi in una fase di transizione dove l’attività del quasar sta ripulendo, per così dire, l’ambiente galattico nucleare. Alla fine di questo processo, l’AGN si estinguerà. Senza gas, che occorre per formare nuove stelle, la galassia ospite “muore di fame” e diventa un insieme di stelle vecchie e solo poche stelle più giovani resistono ancora per rigenerare gli eventuali processi di formazione stellare. Insomma, le stelle più vecchie faranno apparire la galassia più arrossata e solo allora potremmo dire che siamo nella fase, come dicono gli astronomi, di “read and dead“. L’evoluzione dei buchi neri supermassicci è sostanzialmente legata ai processi di formazione stellare che avvengono nelle galassie e ciò determina una forte connessione tra la massa del buco nero e la massa delle stelle della galassia ospite. Ora, dato che la maggior parte delle galassie, almeno nell’Universo locale, non mostrano segni di evoluzione associata ai rispettivi buchi neri, si pensa che debbano esistere alcuni processi fisici che causano l’arresto dell’attività nucleare delle galassie. Alcuni modelli, infatti, suggeriscono che il “colpevole” di tutto ciò sia proprio la presenza di flussi estremi di radiazione provenienti dai quasar che determinano proprio l’assenza di materia ed energia per poter alimentare l’attività dei buchi neri centrali. Insomma, i risultati ottenuti con il telescopio Gemini mostrano la prima chiara evidenza osservativa che la presenza di questi flussi di radiazione siano la causa principale che porterà all’estinzione dei processi fisici legati all’attività dei buchi neri e all’attività di formazione stellare.

ArXiv: INTEGRAL FIELD SPECTROSCOPY OF MASSIVE, KILOPARSEC-SCALE OUTFLOWS IN THE INFRARED-LUMINOUS QSO MRK 231