I punti rossi e verdi indicano la posizione delle nebulose planetarie il cui moto ha rivelato che Messier 87 è stata colpita recentemente da un’altra galassia, più piccola, che ora si è completamente fusa al suo interno. Gli oggetti in rosso si allontanano da noi, mentre quelli verdi si muovono verso di noi, rispetto alla galassia presa nel suo insieme. Credit: A. Longobardi (Max-Planck-Institut für extraterrestrische Physik)/C. Mihos (Case Western Reserve University)/ESO
Qualche giorno fa, abbiamo scritto della cerimonia inaugurale di quello che sarà il più grande telescopio terrestre del mondo, stiamo parlando dell’European Extremely Large Telescope (E-ELT) il cui specchio primario avrà un diametro di 39 metri. C’è, però, chi pensa già in grande per quanto riguarda i telescopi spaziali di nuova generazione. Infatti, nonostante quasi 25 anni di gloriosa carriera da quando il telescopio spaziale Hubble (HST) ha iniziato la sua missione, grazie alla quale sia gli addetti ai lavori che il grande pubblico hanno potuto ammirare le spettacolari immagini e condividere le grandi scoperte scientifiche, non solo ci si prepara al suo successore, il telescopio spaziale James Webb (JWST) che dovrebbe essere lanciato nel 2018, ma si pensa già ad un progetto più ambizioso per il futuro. Si perché gli astronomi vogliono andare oltre se si pensa che JWST avrà una vita più breve se confrontata con quella di HST. Continua a leggere ATLAST, un gigantesco ‘occhio’ nello spazio→
Ad una distanza di circa 10,5 miliardi di anni-luce è stato identificato un ammasso di galassie che ci fornisce nuove informazioni su quelle che dovevano essere le condizioni fisiche dell’Universo delle origini. Si tratta di una scoperta nata per caso, frutto dell’analisi dei dati di una serie di osservazioni condotte da un gruppo di astronomi americani. E’ noto che gli ammassi, i nostri “centri urbani” dello spazio cosmico, possono contenere migliaia di galassie. Essi sono di fondamentale importanza sia perché ci permettono di studiare le varie fasi dell’evoluzione e formazione delle galassie ma anche perché ci permettono di avere indizi sulle condizioni in cui si trovava l’Universo delle origini. L’ammasso in questione si trova a circa 10,5 miliardi di anni-luce ed è composto da una densa concentrazione di 30 galassie, una sorta di gigantesca “metropoli cosmica”. “Stiamo osservando l’ammasso di galassie quando l’Universo aveva una età di circa tre miliardi di anni”, spiega Lee Spitler un astrofisico della Swinburne University of Technology in Australia e autore del progetto di ricerca FourStar Galaxy Evolution Survey (Z-FOURGE). “Questo significa che l’ammasso è ancora giovane e che continuerà a crescere per formare una struttura ancora più grande e costituito da molte galassie“. Insomma, stiamo facendo i primi passi che ci portano a comprendere come si formano questi “agglomerati urbani” in un Universo dominato da materia scura e ciò ci permette indirettamente di avere ulteriori informazioni su come si sono formate ed evolute le prime strutture su larga scala.
Uno studio recente condotto da un gruppo di ricercatori dell’Istituto Niels Bohr dell’Università di Copenhagen suggerisce che circa 1 miliardo di anni dopo il Big Bang le prime galassie subirono un processo di evoluzione molto più rapido di quanto ipotizzato. “Abbiamo studiato 10 galassie molto antiche la cui luce ha viaggiato per circa 10-12 miliardi di anni prima di raggiungere i nostri telescopi. Ci aspettavamo che queste galassie fossero molto primitive e povere di elementi pesanti invece abbiamo trovato, con nostra sorpresa, che in alcune galassie e quindi in alcune stelle il gas è caratterizzato da un elevato contenuto di elementi pesanti, un po’ come quelli presenti nel Sole” spiega il professor Johan Fynbo del Dark Cosmology Centre presso il Niels Bohr Institute dell’Università di Copenhagen. Non solo, ma una galassia si è mostrata ancora più interessante. “In una di queste galassie abbiamo osservato le regioni più periferiche trovando un elevato contenuto di elementi. Ciò suggerisce che la galassie contiene grandi aree ricche di elementi pesanti e questo indica che sin dalle fasi primordiali della storia dell’Universo c’erano quelle potenziali condizioni per la formazione dei pianeti e la nascita della vita” conclude Fynbo. In questo videoJens-Kristian Krogager spiega come le ‘baby’ galassie si sono evolute molto più rapidamente di quanto ipotizzato.
Questa immagine mostra il primo piano di una selezione di quste galassie. Le osservazioni di ALMA, a lunghezze d’onda sub-millimetriche, sono visualizzare in arancione/rosso e sovrapposte all’immagine infrarossa della regione come vista dalla camera IRAC sul telescopio spaziale Spitzer. La mappa finora migliore di queste lontane galassie polverose è stata realizzata con il telescopio APEX (Atacama Pathfinder Experiment), ma le osservazioni di APEX non erano abbastanza nitide per identificare queste galassie senza ambiguità nelle immagini ad altre lunghezze d’onda. ALMA ha impiegato appena due minuti per ogni galassia per identificarle all’interno di una regione molto piccola, più di 200 volte minore delle grandi macchie di APEX, e con una sensibilità tre volte maggiore. Credit: ALMA (ESO/NAOJ/NRAO), J. Hodge et al., A. Weiss et al., NASA Spitzer Science Center
Grazie ad una serie di osservazioni condotte con il complesso dei radiotelescopi ALMA (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array) un gruppo di astronomi sono stati in grado di individuare più di 100 galassie nell’Universo primordiale che presentano un elevato tasso di formazione stellare . ALMA è così potente che, in sole poche ore, ha effettuato un numero di osservazioni tali da essere paragonate a quelle realizzate da telescopi simili in tutto il mondo nell’arco di più di un decennio.
La fase più intensa della nascita di nuove stelle ha avuto luogo in quelle galassie remote che contenevano molta polvere cosmica. Queste galassie sono fondamentali per comprendere la formazione e l’evoluzione delle galassie nel corso della storia dell’Universo, ma la polvere le oscura e rende difficile la loro identificazione con i telescopi ottici. Per trovarle, gli astronomi devono usare telescopi che analizzano la luce a lunghezze d’onda maggiori, intorno al millimetro, come appunto ALMA. “Gli astronomi hanno atteso dati come questi per più di un decennio. ALMA è così potente che ha rivoluzionato il modo di osservare queste galassie, anche se il telescopio non era ancora completo quando sono state effettuate le osservazioni“, ha detto Jacqueline Hodge del Max-Planck-Institut für Astronomie. Le immagini migliori delle galassie sono state ottenute con il telescopio APEX (Atacama Pathfinder Experiment), gestito dall’ESO, che ha osservato un pezzetto di cielo che sottende la dimensione della Luna piena, trovando così 126 galassie di questo tipo. Ma nelle immagini di APEX ogni regione di formazione stellare appare come una macchia indistinta, così grande da coprire più di una galassia nelle immagini più nitide fatte ad altre lunghezze d’onda. Senza sapere esattamente quale delle galassie sta producendo stelle, gli astronomi avevano alcune difficoltà ad interpretare la formazione di stelle nell’Universo primordiale. Dunque, per identificare la galassia giusta sono necessarie osservazioni ad alta definizione e perciò serve un telescopio più grande. APEX ha una sola antenna parabolica da 12 metri di diametro, mentre i telescopi come ALMA usano molte antenne simili a quella di APEX sparpagliate su grandi distanze. I segnali di tutte le antenne vengono combinati e l’effetto è quello di un unico telescopio gigante grande come l’intero insieme di antenne. I ricercatori hanno usato inizialmente ALMA per osservare le galassie della mappa di APEX durante la prima fase di osservazioni scientifiche. Usando meno di un quarto del totale di 66 antenne, distribuite su distanze fine a 125 metri, ALMA ha impiegato appena due minuti per ogni galassia per identificarle all’interno di una regione molto piccola, più di 200 volte minore delle grandi macchie di APEX e con una sensibilità tre volte maggiore. ALMA è tanto più sensibile degli altri telescopi del suo genere che in sole poche ore ha raddoppiato il numero totale di osservazioni di questo tipo. Non solo i ricercatori hanno identificato senza ambiguità quale galassia conteneva regioni attive di formazione stellare ma in circa la metà dei casi hanno scoperto che più galassie con formazione di stelle erano confuse in una sola macchia nelle osservazioni precedenti. Insomma, il potere esplorativo di ALMA ha permesso di distinguere le singole galassie. “Pensavamo che le galassie più brillanti formassero stelle mille volte più vigorosamente della nostra galassia, la Via Lattea, il che le poneva a rischio di disintegrazione. Le immagini di ALMA rivelano la presenza di galassie multiple, più piccole, che formano stelle a tassi in qualche modo più ragionevoli”, ha detto Alexander Karim uno dei membri del gruppo di ricerca. I risultati costituiscono il primo catalago statisticamente affidabile relativo a quelle galassie che presentano un tasso elevato di formazione stellare nell’Universo primordiale e forniscono nuovi indizi indispensabili per proseguire con le ulteriori indagini sulle proprietà di queste galassie a diverse lunghezze d’onda senza rischio di ottenere una interpretazione errata a causa della confusione tra le galassie. Nonostante l’elevato potere esplorativo di ALMA e la sua sensibilità senza pari, telescopi come APEX continuano ad avere un ruolo importante. “APEX può coprire una vasta area di cielo più in fretta di ALMA e perciò è ideale per identificare esattamente queste galassie”, conclude Ian Smail della Durham University.
Secondo il modello cosmologico standard, meno di un miliardo di anni dopo il Big Bang si formarono le prime galassie. Nessuno sa quando e come sia avvenuto questo processo. Per queste ragioni, gli astronomi non sono in grado di stabilire esattamente la storia cosmica della Via Lattea e delle sue stelle anche se sono stati fatti vari tentativi per capire, almeno in maniera approssimativa, come sono andate le cose. Nel 1996, il telescopio spaziale Hubble venne puntato per una decina di giorni verso una regione molto buia del cielo in modo da acquisire una fotografia a lunga esposizione dello spazio più remoto. L’immagine che è stata ottenuta, denominata Hubble Deep Field (HDF), ci ha rivelato che le galassie esistevano già quando l’Universo aveva una età di circa 700 milioni di anni. Da allora, gli astronomi hanno cercato di capire che cosa sono esattamente questi oggetti studiandone la loro morfologia ed evoluzione e se essi assomigliano, in qualche modo, alla nostra galassia così come si trova oggi o come era durante le epoche primordiali della storia cosmica.
Un gruppo di ricercatori del Smithsonian Center for Astrophysics hanno terminato una survey profonda ed incontaminata dell’Universo distante grazie ad una serie di osservazioni condotte con la Infrared Array Camera installata a bordo del telescopio spaziale Spitzer. La survey profonda del cielo ha permesso di esplorare le regioni più remote del cosmo con una tale profondità e un campo di vista mai raggiunti prima, quasi sei volte l’area del cielo che sottende la Luna piena, perciò decisamente maggiore rispetto all’immagine originale ottenuta da Hubble. Gli scienziati hanno rivelato galassie così piccole la cui massa è equivalente al 15% di quella della Via Lattea e la cui luce ha viaggiato per circa 12,7 miliardi di anni. All’interno del campo di vista della survey si contano più di 300 mila galassie. Questi nuovi dati permettono di ricavare nuovi indizi su quattro punti: 1) l’evoluzione delle galassie su questo lungo arco di tempo; 2) la rivelazione di galassie attive contenenti buchi neri supermassicci; 3) la variabilità di questi nuclei galattici; 4) lo studio dell’emissione infrarossa distribuita ‘tra’ queste sorgenti, quella che tecnicamente viene chiamata la componente diffusa. Infine, da queste osservazioni si è trovato che quasi il 50% del contributo della luce cosmica nella banda dell’infrarosso è associato alle galassie distanti mentre il resto proviene dalla componente diffusa di fondo la cui origine non è ancora nota e, forse, potrebbe essere dovuta ad un insieme di galassie più piccole.
Un’immagine agli ultravioletti della NGC 1365 ottenuta con GALEX. Credit: GALEX/NASA
Immaginate una sfera che si estende per più di 3 milioni di chilometri, circa otto volte la distanza media tra la Terra e la Luna, e che ruoti così velocemente che la sua superficie si muove a quasi la velocità della luce. Nella realtà questo oggetto esiste e si tratta del buco nero supermassiccio che risiede nel nucleo della galassia NGC 1365.
Gli astronomi hanno misurato la sua velocità di rotazione, o tecnicamente lo spin, utilizzando i dati raccolti dal NuSTAR (Nuclear Spectroscopic Telescope Array) e dal satellite XMM-Newton. La gravità di un buco nero è così intensa che man mano che l’oggetto ruota esso trascina con sé lo spazio. L’estremità della regione dello spazio che viene trascinata dalla rotazione del buco nero viene chiamata orizzonte degli eventi. Qualsiasi materia che superi questa superficie ideale viene catturata dal buco nero e inizia ad accrescersi formando un disco di accrescimento che viene riscaldato dall’attrito producendo emissione di alta energia sottoforma di raggi-X. L’orbita interna più stabile, cioè il cosiddetto punto di non ritorno, dipende dallo spin del buco nero. Dato che un buco nero che ruota così velocemente distorce lo spazio, la materia del disco di accrescimento può arrivare molto vicina all’oggetto prima di essere catturata definitivamente. Ma perché è importante sapere la velocità di rotazione del buco nero? Esistono diverse ragioni. La prima è di natura fisica perché solo due numeri definiscono un buco nero: la massa e lo spin. Se conosciamo questi due parametri siamo in grado di sapere quasi tutto sull’oggetto. La cosa più importante è che lo spin ci dà informazioni sul suo passato e indirettamente sull’evoluzione della galassia ospite. In altre parole, lo spin del buco nero rappresenta una sorta di memoria, una ‘registrazione’, per così dire, della storia evolutiva della galassia. Nonostante il buco nero di NGC 1365 abbia oggi una massa dell’ordine di diversi milioni di masse solari, non è nato molto grosso. Si ritiene, invece, che sia evoluto nel corso di miliardi di anni accrescendo materia da stelle e gas e interagendo attraverso il fenomeno del merging con altri buchi neri. La sua rotazione è il risultato del trasferimento del momento angolare, un pò come avviene per l’altalena. Se, ad esempio, spingiamo in maniera casuale l’altalena mentre oscilla, vedremo che non si arriverà mai molto in alto. Però se spingiamo l’altalena alla fine di ogni oscillazione, quando ritorna indietro, vedremo che essa andrà sempre più in alto poiché stiamo trasferendo ad essa momento angolare. Allo stesso modo, se il buco nero cattura casualmente materia da tutte le direzioni, il suo spin risulterà basso. Dato che lo spin del buco nero in NGC 1365 è molto vicino al valore massimo possibile, gli astronomi ritengono che la sua massa sia aumentata attraverso un processo di accrescimento ‘ordinato’ piuttosto che mediante una serie di eventi ripetuti e casuali. Infine, queste osservazioni permetteranno ai teorici di eseguire una serie di test della relatività generale in condizioni estreme.
Presenti nei nuclei delle galassie, i buchi neri supermassicci sono determinanti per l’evoluzione delle stelle non solo grazie all’enorme e all’intensa attrazione gravitazionale che essi esercitano ma anche per la formazione dei getti relativistici che si diffondono nello spazio intergalattico.
“Durante la sua vita, un buco nero può emettere così tanta energia da superare quella dovuta a tutte le stelle della galassia”, spiega Roger Blandford direttore del Kavli Institute for Particle Astrophysics and Cosmology e membro dell’Accademia delle Scienze negli Stati Uniti. “I buchi neri hanno un impatto fondamentale sulla formazione e l’evoluzione delle galassie”. Per definizione, i buchi neri non sono osservabili dato che esercitano una enorme attrazione gravitazionale che persino la luce non è in grado di vincere. Gli scienziati acquisiscono le informazioni sui buchi neri andando a studiare gli oggetti che orbitano attorno ad essi: in particolare, le stelle e i dischi di accrescimento. Grazie a queste informazioni indirette, gli astronomi sono in grado di elaborare una serie di modelli numerici allo scopo di descrivere i fenomeni fisici che avvengono attorno a questi ‘mostruosi’ oggetti. “Tutti i test della relatività generale seguono le previsioni della teoria di Einstein nel limite in cui il campo gravitazionale è debole, come ad esempio nel nostro Sistema Solare”, dice Jonathan McKinney, un professore di fisica dell’University of Maryland a College Park. “Tuttavia, esiste un altro regime, e cioè quello del campo gravitazionale forte, dove diventa più complicato verificare le previsioni della relatività generale. I buchi neri rappresentano il ‘luogo’ dello spazio più estremo per fare questi test”. Assieme ai dischi di accrescimento, in cui la materia orbita nella parte più esterna e a noi visibile dell’orizzonte degli eventi, i buchi neri sono caratterizzati da due getti relativistici che emergono dalle regioni centrali in direzione perpendicolare al piano del disco di accrescimento. Qui la materia è presente sottoforma di plasma o gas ionizzato e viene espulsa, per così dire, fino a centinaia o migliaia di anni-luce nello spazio intergalattico. McKinney, Tchekhovskoy e Blandford hanno simulato numericamente la formazione dei dischi di accrescimento e dei getti relativistici trovando che essi tendono a diventare molto più distorti ed incurvati rispetto a quanto ipotizzato in precedenza, una conseguenza dovuta sia all’estrema forza di gravità del buco nero che alle intense forze magnetiche generate dalla sua rotazione. Il loro modello fornisce così nuovi indizi molto dettagliati che contribuiscono ad una nuova conoscenza in questo campo di ricerca. Le simulazioni sono state realizzate con i potenti supercomputer della National Science Foundation’s Extreme Science and Engineering Discovery Environment (XSEDE).