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L’isotopo più importante per l’origine della vita

E’ a tutti noto che sin dalla sua nascita, l’Universo si sta espandendo e continua ad evolversi formando strutture sempre più complesse a partire dalle particelle elementari. Oggi, un gruppo di fisici teorici hanno ottenuto nuovi indizi in merito ad una reazione nucleare che risulta di fondamentale importanza per l’origine della vita come noi la conosciamo.

Noto come processo 3-alpha, questa reazione nucleare è responsabile dell’abbondanza dell’elemento carbonio presente nell’Universo. Per diversi anni, il meccanismo fisico mediante il quale le stelle emettono luce è stato compreso attraverso un processo a due fasi. Di recente, alcuni fisici hanno rivisto questo processo per analizzare il meccanismo più da vicino dietro il quale si cela la presenza dell’isotopo più importante per la vita: il carbonio-12. In particolare, gli scienziati si sono trovati ad affrontare un problema relativo al tasso di produzione del carbonio-12 a basse temperature. I calcoli che sono stati ottenuti in precedenza dal gruppo di ricercatori guidato da Kazuyuki Ogata, un professore di fisica nucleare della Kyushu University in Fukuoka nel Giappone, indicano che le stelle evolvono così rapidamente che non riescono a raggiungere la fase di gigante rossa. Ma questo, di fatto, non è vero in quanto lo spazio è pieno di numerosissime stelle che si trovano in questa fase avanzata dell’evoluzione stellare. Dunque c’è un problema probabilmente associato ai metodi utilizzati. Sappiamo che il carbonio è il quarto elemento più abbondante nell’Universo e l’isotopo carbonio-12 è la sua forma più comune. Caratterizzato da 6 protoni e 6 neutroni, questo nucleo molto semplice rappresenta la base di tutta la vita, almeno come noi la conosciamo. Tuttavia, i processi che determinano la formazione di questo isotopo e la sua abbondanza non sono così semplici. Di fatto, una frazione di secondo dopo il Big Bang, i quark e i gluoni si unirono per formare protoni e neutroni. Appena tre minuti più tardi, apparvero i primi nuclei di idrogeno e di elio. Ma deve passare almeno un milione di anni prima che gli elettroni formino atomi neutri e circa duecento milioni di anni affinchè appaiano le prime stelle. All’interno del calderone stellare, i protoni iniziarono a combinarsi in nuclei di elio attraverso una sequenza di reazioni nucleari. Dopo, però, tali processi nucleari ebbero un periodo di arresto. Ad esempio, se aggiungiamo un singolo protone all’atomo di elio, otteniamo litio-5, un isotopo che non esiste in natura. Se due nuclei di elio fondono, si ottiene berillio-8, un altro nucleo che non esiste in accordo alle leggi della fisica nucleare. Chiaramente, le stelle continuarono la loro evoluzione, creando tutti gli elementi possibili che vediamo oggi. Ma allora la domanda è: come è possibile? Questo puzzle ha tenuto impegnati gli scienziati per diversi anni perché se non siamo in grado di spiegare l’abbondanza di carbonio-12, diventa quasi impossibile spiegare come si sia formato l’Universo. La risposta deriva dalla reazione 3-alpha che coinvolge tre nuclei di elio. Nonostante il berillio-8 decada dopo qualche nanosecondo, nel caso in cui la stella sia abbastanza calda, una terza particella alpha si fonde con questo isotopo. E dato che l’energia di un nucleo di berillio-8 sommata all’energia di una particella alpha è quasi equivalente a quella dell’isotopo di carbonio-12, si crea una risonanza del processo nucleare che causa un incremento al tasso di produzione del carbonio-12. Tuttavia, c’è un altro modo per cui le stelle sono in grado di produrre carbonio-12. A basse temperature, quando l’energia non è ancora sufficiente per dar luogo al processo di risonanza, l’isotopo carbonio-12 può essere prodotto attraverso la fusione simultanea di tre particelle alpha. Il gruppo di Kyushu è stato così in grado di ottenere previsioni teoriche più adeguate del tasso di produzione del carbonio-12 che sono in accordo con i modelli precedenti nel caso di temperature elevate. A temperature più basse, i loro risultati suggeriscono un incremento del tasso di produzione del carbonio-12 pari a circa 10 trilioni di volte maggiore rispetto alle stime precedenti. Insomma, i nuovi calcoli permettono ancora l’esistenza delle stelle giganti che sono quindi salve. Ora si spera che in futuro queste previsioni possano fornire nuovi scenari che riguardano alcuni problemi astrofisici ancora irrisolti e che riguardano le stelle novae e le supernovae.

ArXiv: Low-Temperature Triple-Alpha Rate in a Full Three-Body Nuclear Model

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ALMA inaugura una nuova era dell’astrochimica

Qual è la chimica dell’Universo? Per rispondere a questa domanda, gli astronomi stanno tentando di sfruttare le potenti capacità esplorative del radiotelescopio ALMA e le nuove tecniche di laboratorio. Questo nuovo metodo d’indagine è stato applicato di recente da un gruppo di ricercatori che hanno analizzato il gas diffuso nelle regioni di formazione stellare della nebulosa di Orione.

I ricercatori hanno ampiamente migliorato il processo di identificazione delle “impronte digitali chimiche”, per così dire, aprendo così la strada a nuovi studi che finora erano stati impossibili o proibitivi. “Grazie ad ALMA, abbiamo mostrato come sia possibile fare l’analisi chimica di quelle regioni di formazione stellare che è stata molto limitata nel passato” dichiara Anthony Remijan del National Radio Astronomy Observatory (NRAO). L’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array è attualmente in fase di costruzione nel deserto settentrionale di Atacama nel Cile. Quando sarà completato, nel 2013, le sue 66 antenne caratterizzate da una elevata precisione ed una elettronica estremamente avanzata permetteranno di esplorare l’Universo senza precedenti ed in particolare tra le lunghezze d’onda radio più lunghe e l’infrarosso. A queste lunghezze d’onda, è possibile rivelare determinate composti chimici. Di fatto, più di 170 molecole, incluse quelle organiche come i composti dello zucchero, sono già stati scoperti nello spazio. Questi elementi chimici, precursori della vita, sono presenti principalmente nelle gigantesche nubi di gas e polveri tipiche delle regioni di formazione stellare. Le molecole hanno particolari proprietà fisiche, cioè ruotano e vibrano, e ogni volta che esse modificano il loro stato fisico emettono dei segnali caratteristici che possono essere rivelati come onde radio a determinate lunghezze d’onda. L’analisi del loro spettro permette di identificarle grazie alla presenza delle diverse righe di emissione ognuna delle quali corrisponde ad una particolare lunghezza d’onda o frequenza. Ma fare ciò richiede molto tempo e non sempre si riesce ad ottenere l’informazione desiderata, senza considerare il fatto che le molecole possono cambiare le loro proprietà al variare della temperatura. Oggi, però, esiste la possibilità di analizzare simultaneamente un insieme più grande di lunghezze d’onda, confrontando i dati di ALMA con i modelli delle varie righe spettrali anche in funzione delle diverse temperature. “Il confronto è stato impressionante” spiega Sarah Fortman della Ohio State University. “Le righe spettrali rimaste sconosciute per diversi anni sono state immediatamente identificate permettendoci di verificare l’esistenza di determinate molecole e quindi tutti gli spettri più complessi che sono presenti nella nostra Galassia”. Nel passato, le tante righe spettrali non identificate rendevano l’analisi molto complicata. Oggi, invece, queste molecole non solo ci danno informazioni vitali sulla chimica di queste enormi nubi di gas ma ci dicono anche quali sono le loro condizioni fisico-chimiche. Insomma, si tratta di una nuova era nel campo dell’astrochimica perché questi metodi innovativi d’indagine astronomica stanno rivoluzionando la nostra comprensione sulle affascinanti regioni di formazione stellare.

[Press release: Astrochemistry enters a new bold era with ALMA]

La luce delle ‘prime’ stelle

Il video che voglio segnalare oggi è il quinto episodio della serie “The Hidden Universe of the Spitzer Space Telescope” che riguarda le osservazioni della radiazione proveniente dai primi oggetti che si sono formati nell’Universo.

Secondo il modello del Big Bang, materia, energia, spazio e tempo si sono originati da una enorme esplosione 13,7 miliardi di anni fa. Successivamente, lo spazio continuava ad espandersi e a raffreddarsi, riempiendosi di nubi di gas costituite principalmente da idrogenoed elio. Durante questa “epoca scura”, la gravità agì sul gas formando agglomerati e filamenti e dopo circa 400 milioni di anni le regioni più dense collassarono per dar luogo alla prima generazione di stelle. Se la prima popolazione di stelle fu caratterizzata da oggetti estremamente massicci, così come almeno si ritiene sia accaduto, essa avrebbe dovuto produrre una grande quantità di radiazione in presenza di numerose strutture. Tali oggetti sarebbero stati così brillanti ed enormi, forse fino a 1000 volte la massa del Sole, da produrre nelle loro fornaci nucleari i primi elementi più pesanti dell’Universo. Quindi, le esplosioni delle supernovae hanno fatto il resto spazzando nel mezzo interstellare questi elementi e producendo i “mattoni fondamentali” per formare i pianeti e persino gli esseri viventi. Dunque, per cercare questa popolazione primordiale di stelle sono state utilizzate immagini molto profonde con il telescopio spaziale Spitzer che ha osservato per lunghissime ore determinate regioni dello spazio mettendo in evidenza ciò che non è possibile realizzare con gli altri strumenti. Insomma, gli astronomi hanno potuto spingersi indietro nel tempo, fino a qualche miliardo di anni dopo il Big Bang, osservando la luce associata alla prima generazione di stelle di grande massa o, forse, a quella dovuta al gas super riscaldato che è stato successivamente attirato dal campo gravitazionale dei primi buchi neri.

Un acceleratore di particelle per lo studio dell’origine degli elementi

Il professore di fisica Michael Wiescher dell’University of Notre Dame sta studiano l’origine degli elementi e l’evoluzione chimica dell’Universo grazie all’utilizzo di un nuovo acceleratore di particelle situato presso il Nuclear Science Laboratory (NSL) a Nieuwland.

Stiamo cercando di simulare le reazioni nucleari che hanno luogo nelle stelle” spiega Wiescher. “Il nostro corpo è composto dal 70% di idrogeno di cui la metà si è formato circa 12-13 miliardi di anni fa in seguito al Big Bang e il resto si è prodotto nelle successive generazioni di stelle. In qualche modo noi esseri umani siamo collegati con le stelle perchè almeno il 50% degli atomi presenti nel nostro organismo sono stati generati dalle esplosioni stellari”. L’acceleratore di Notre Dame sta aiutando gli scienziati a ricreare quei processi nucleari che avvengono nelle stelle in modo da rendere le osservazioni complementari a quelle da terra e dallo spazio e che stanno tentando di tracciare, per così dire, la storia passata e presente dei processi di nucleosintesi che avvengono nel cosmo. Gli esperimenti del nuovo acceleratore permettono di realizzare le condizioni ideali per esplorare la struttura quantistica dei nuclei al fine di avere maggiori indizi sulla formazione degli elementi che hanno origine in seguito alle reazioni nucleari nelle stelle.

[Press release: New accelerator helps Notre Dame scientists understand workings of the universe]

Galassie nane, laboratori ideali per comprendere l’evoluzione dell’Universo

L’immagine della galassia nana NGC 4214 ripresa dal telescopio spaziale Hubble mostra, in rosso, le regioni delle nubi di idrogeno dove si stanno formando nuove generazioni di stelle.
Credit: NASA/ESA

Grazie ad una serie di osservazioni condotte con il telescopio di 2,3m dell’Australian National University (ANU) dell’Osservatorio di Siding Spring è stato possibile studiare un campione di galassie nane distanti. Queste galassie sono considerate laboratori ideali per capire come si è evoluto l’Universo sin dalla sua origine.

Inizialmente, l’Universo era riempito, per così dire, principalmente dagli elementi idrogeno ed elio. Le grandi stelle si formarono da questi elementi e, in seguito alla loro evoluzione, esse consumarono l’idrogeno e l’elio producendo una sorta di ‘cenere cosmica’ composta da elementi più pesanti tra cui l’azoto, il carbonio e l’ossigeno, essenziali per la vita. Quando le grandi stelle consumarono il proprio combustibile nucleare, esse esplosero formando le supernovae riciclando gli elementi più pesanti in nubi di gas idrogeno da cui si formarono successivamente nuove generazioni di stelle. Il fatto sorprendente è che nelle galassie nane questo processo avviene molto lentamente. Esse si possono considerare come una sorta di villaggio storico in cui esistono ancora intatte le vecchie costruzioni e questo ci permette di capire come si mostravano quando si sono formate. Tuttavia, nelle grandi città quasi tutte le vecchie costruzioni sono andate perse per cui diventa difficile dire come apparivano originariamente, proprio come le galassie più grandi. Dunque, studiare le galassie nane ci permette di “vedere” come si mostrava l’Universo molto tempo fa. Per fare questo, occorre analizzare la luce dei vari elementi nelle nubi di idrogeno presenti nelle galassie nane e ciò ci permette di determinare quanto esse sono ricche e come si sono evolute sin dalle origini dell’Universo. I ricercatori che hanno analizzato i dati hanno trovato con grande sorpresa che le misure non sono d’accordo con i modelli attuali: in altre parole, le energie degli elettroni nelle nubi di gas non sono distribuite secondo quanto ci si aspetta, un mistero rimasto inspiegato da circa 40 anni. Ora serviranno ulteriori dati per studiare ancora più in dettaglio gli elementi presenti nelle galassie distanti al fine di comprendere indirettamente come si è evoluto il nostro Universo.

ArXiv: RESOLVING THE ELECTRON TEMPERATURE DISCREPANCIES IN H II REGIONS AND PLANETARY NEBULAE: κ-DISTRIBUTED ELECTRONS